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“Across bridges and portals”: al via la quarta edizione di EMBA Ticinensis

8 ottobre 2021 - Stefano Denicolai






Siamo alle solite: l’umanità si è dimostrata ancora una volta affetta da un vizio alquanto pernicioso: ci prepariamo al futuro codificandolo sulla base di esperienze già vissute in passato. Fateci caso: un serio ragionamento sulle misure antiterrorismo da adottare negli aeroporti è stato fatto solo in seguito al dramma dell’11 settembre 2001, ovvero 91 anni dopo il primo volo di linea nel 1910 fra Parigi e Londra. Similmente, la rivoluzione “fintech” fonda le sue radici nella profonda crisi finanziaria del 2008. Oggi, si avverte una mobilitazione di enormi energie e risorse al fine di non farci più cogliere impreparati al cospetto di nuove pandemie.

Già, ma se il prossimo ‘cigno nero’ fosse qualcosa di diverso? Ad esempio, una crisi sanitaria causata dalla resistenza agli antimicrobici (AMR). E’ stato stimato che ciò potrebbe creare oltre 10 milioni di morti all’anno, ossia oltre il doppio dei decessi Covid19 e pure più di quelli per tumore (8.2 milioni) (fonte: Review on Antimicrobial Resistance, 2014). E se invece fosse la prima tecno-crisi planetaria? Immaginate cosa potrebbe succedere se qualcosa causasse lo spegnimento simultaneo di internet ovunque nel mondo per ore o giorni. O se ci colpisse un meteorite sfuggito ai sistemi di monitoraggio?

Tutti discorsi inutili: molto probabilmente la prossima grande emergenza globale sarà causata da qualcosa che oggi neppure riusciamo ad immaginare. Ma non importa: pare che l’importante sia solo prepararci alla prossima pandemia.

Qualcosa va ri-sintonizzato. In primo luogo, dobbiamo imparare a fidarci di più della scienza, nonché valorizzarne meglio il potenziale. Nel 2019 – quale dato più recente a disposizione – sono stati depositati nel mondo 3,224,200 brevetti (fonte: WIPO), quasi il doppio di quanto avveniva 10 anni fa (1,9 milioni nel 2010): una crescita clamorosa, ma secondo una nuova geografia dell’innovazione. Certo, non stupisce che nello stesso intervallo di tempo la Cina sia passata dal pesare il 2,5% di tutti i brevetti su scala mondiale al 10,2% (+405%!). Tuttavia non è solo questione di nuovi colossi della scienza e della tecnologia: prima la produzione intellettuale era concentrata in pochi grandi paesi, ora diventa più omogeneamente distribuita su scala globale. Dominatori come gli USA scendono dal 20.3% al 19.3%, mentre sono diversi i “nuovi paesi innovatori”: Arabia Saudita +352%, Polonia +221%, Estonia + 204%, Turchia +161%, India +142%, etc etc. Non solo: da un lato più paesi, dall’altro concentrazioni in cluster della conoscenza, vecchi e nuovi: San Francisco, Boston, Tokyo, Shenzhen, Tel Aviv, Singapore, Istanbul, Seul, Sydney etc.

In uno scenario del genere, il paradigma ‘Open Innovation’ dovrebbe averci insegnato qualcosa: non vince chi genera più innovazione, prospera chi sa meglio “connettere” innovazione

La questione che dovrebbe farci riflettere è che negli ultimi anni stiamo facendo l’esatto contrario: abbiamo smesso di costruire ponti e portali. Cresce la diffidenza verso certi Paesi dell’est e – anche per via di altre ragioni – le catene del valore internazionali si accorciano. Il cambiamento climatico viene combattuto con azioni di fatto locali. E così via. Questo atteggiamento frena l’innovazione, la quale non è null’altro se non l’espressione di connessioni creative tra elementi disconnessi.

Occorre re-infrastrutturare gli ecosistemi produttivi con ponti e portali fra idee e conoscenze secondo nuovi paradigmi, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Come? Dal punto di vista di chi come noi si occupa di ricerca e formazione, anche visitando fisicamente i luoghi dove ‘nasce il futuro’, aumentando intensità e profondità di queste spedizioni grazie alle tecnologie – fra connessioni remote ed esperienze virtuali e/o aumentate – o anche semplicemente grazie a vision e immaginazione. 

Questa frammentazione nello spazio viene amplificata da un diverso senso del tempo,  in momento della storia in cui i cambiamenti su molti fronti si fanno decisamente più repentini e importanti, in cui scelte da sempre date per scontate diventano inaspettatamente incerte. Un esempio: un’azienda ha ancora bisogno di una sede? Se sì, a cosa serve esattamente? Consolidate certezze vengono messe in discussione, nella costruzione di nuovi equilibri che riflettono l’evoluzione delle priorità valoriali e delle aspettative delle persone. 

Cambia il modo di lavorare, cambiano gli scenari, si accentua l’urgenza verso modelli agili ed antifragili. Tuttavia, c’è una cosa che non è cambiata: ogni manager ogni giorno deve compiere delle scelte, dalle più facili alle più segnanti, sapendo che ciascuna di queste scelte apre nuove intriganti opportunità… ma al tempo stesso ne chiude della altre, per sempre.

Indietro non si torna e serve condurre il cambiamento tramite il cosiddetto ‘integrative thinking’, dove la risposta a due opzioni agli antipodi è una terza strada migliore delle precedenti. Evoluzione o rivoluzione? Internalizzare o esternalizzare? Ponte o portale? Non ci sono risposte assolute, ma resta l’importanza di mettersi in gioco nelle condizioni migliori.

È bene che si cominci a parlare di “innovazione transformativa” anche nelle imprese. È infatti questo un termine diffuso specie tra i ‘policy-makers’. Diventa invece fondamentale che pure i C-level nelle aziende facciano proprio questo paradigma. A livello organizzativo, significa avviare trasformazioni profonde delle organizzazioni pungolando punti sensibili che avviano reazioni a catena nell’intera organizzazione, portando a cambiamenti dirompenti, multipli e simultanei che “non risparmiano” nessuna funziona aziendale, nessun livello gerarchico, nessuna dimensione cognitiva. Ad esempio: trasformazione digitale ma anche di business, in tutti i prodotti e tutti i processi, verso ‘dual companies’ dove la contrapposizione ‘imprese for profit vs imprese no profit’ perde di senso, alla luce di un concetto moderno di sostenibilità (le famose 3P: People, Planet, Profit). 

Chi accetta la sfida?

Elaborazione grafica dell’immagine di copertina a cura di Alessandro Anglisani